Psicologia in cronicità

Il  miglioramento  delle  condizioni  sociosanitarie  e  l’aumento  della  sopravvivenza  hanno  portato progressivamente a una profonda  modifica degli   scenari   di   cura.  Parallelamente all’invecchiamento della popolazione, infatti, si  è  verificato  un  progressivo  incremento  delle  malattie  ad  andamento cronico, spesso presenti contemporaneamente  nello stesso individuo.

Le malattie croniche si differenziano da quelle acute per una insorgenza graduale nel tempo, una eziopatogenesi multipla, l’impossibilità della restituitio ad integrum (l’obiettivo prioritario diviene l’aumento della qualità della vita) e un’assistenza sanitaria continuativa e a lungo termine.

Negli  ultimi  anni  la  domanda  di  servizi  sanitari  per  soggetti  con  patologie  croniche  è  diventata sempre più alta  ed è cresciuto l’ammontare delle risorse sanitarie destinate a questa fascia di  popolazione. Un  terzo  delle  visite  generiche  e  di  quelle  specialistiche  risulta erogato alla popolazione multi-cronica (più patologie croniche co-presenti); circa il 30% di queste persone hanno patologie croniche gravi (Piano Nazionale della Cronicità, 2016).

La malattia cronica porta in maniera preponderante in primo piano, oltre agli aspetti prettamente organici, tutta una serie di variabili psicosociali che incidono profondamente sulla gestione della patologia e sul suo decorso. Essa è associata al declino degli aspetti di vita, come l’autonomia, la mobilità, la vita di relazione con conseguente aumento dello stress psicologico e delle ospedalizzazioni. Rappresenta una condizione che richiede un continuo  processo di adattamento, il sostegno di altre persone, una buona relazione con lo staff di cura. Tutto ciò rende imprescindibile l’attenzione a dimensioni quali le rappresentazioni  e i vissuti connessi alla malattia, la comunicazione e le relazioni con operatori e caregiver, le  risorse personali e collettive.

La cronicità è quindi il nuovo scenario con cui i professionisti e le istituzioni devono urgentemente confrontarsi per sviluppare risposte assistenziali efficaci e sostenibili. Confrontarsi con la cronicità significa fare i conti con una gestione della patologia a lungo termine, significa cogliere l’ardua sfida di gestire la complessità. La cronicità pone in crisi i vecchi modelli di cura, fondati principalmente su una dimensione “ospedalocentrica” e di gestione delle acuzie e apre a una serie di profonde trasformazioni, in conseguenza alle quali diviene prioritario promuovere un’efficace integrazione tra le organizzazioni sanitarie e i servizi territoriali e tra professionisti diversi, ottimizzando i percorsi terapeutici. Da questo punto di vista nel nostro Paese, il Piano Nazionale Cronicità (PNC) rappresenta un tentativo di proporre un rinnovata  visione strategica e un approccio di cura nell’ambito delle patologie croniche fondato su  pilastri quali la centralità della persona, la presa in carico globale, un sistema di assistenza continuativa, multilivello, multidimensionale e multidisciplinare.

E’ proprio all’interno di tale cornice che la Psicologia può trovare ampio spazio, assumendo un ruolo fondamentale nella gestione della cronicità.

A questo proposito la letteratura di riferimento ha ampiamente dimostrato come l’intervento psicologico in cronicità risulti efficace nelle diverse fasi della malattia e relativamente a diverse dimensioni. Al di là della specificità della diagnosi, sin dal momento della sua comunicazione e in tutte le fasi successive, l’adattamento alla cronicità sembra irrompere nella vita dell’individuo come un vero e proprio sisma che genera un importante senso di “frattura” e di discontinuità con tutte le scosse di assestamento annesse e successive. Un momento di trasformazione e smarrimento che dal punto di vista delle variabili psicologiche sembra ricalcare le fasi dell’elaborazione del lutto.

È ormai noto come porre attenzione a tali variabili sia di estrema rilevanza al fine di modulare e adattare la comunicazione con il paziente e al contempo poterlo “coinvolgere” in modo efficace all’interno di obiettivi terapeutici personalizzati che possano diventare sempre più “personali”, rispetto ai quali permettergli di sentirsi sempre più “agente attivo”.

Negli ultimi decenni, soprattutto in cronicità,  si è assistito ad  un viraggio profondo dei modelli di cura verso una sempre maggiore valorizzazione del ruolo della persona, vista come soggetto attivo ed “esperto” all’interno del processo clinico-assistenziale. Ormai ampiamente dibattuta è la questione dell’adherence, intesa come coinvolgimento attivo del paziente con cronicità ad uno stile di vita adeguato, con tutte le variabili annesse che riguardano: le scelte quotidiane, lo stile alimentare, l’esercizio fisico, il regime terapeutico ma anche al contempo la regolazione delle emozioni che potrebbero interferire con e ostacolare una buona auto-gestione.  È di crescente interesse l’analisi e l’approfondimento delle dimensioni e variabili che più hanno un impatto sull’adherence, ma anche l’analisi dei fattori che potrebbero favorire il coinvolgimento attivo del paziente, ben espresso in un termine non diversamente traducibile da “engagement”. A tal proposito, diversi studi hanno evidenziato come la percezione di un senso di efficacia, le convinzioni di autoefficacia percepita, così come senso di identificazione sociale, modulato dall’appartenenza ad un gruppo, nelle variabili cognitivi e affettive, siano un potente motore nello stimolare e favorire l’adherence terapeutica. Tutte dimensioni che la letteratura ha dimostrato possano essere efficacemente promosse attraverso interventi psicologici mirati.

Alla luce di tali dati appare di estrema importanza immaginare come la traduzione nella pratica clinica della visione olistica e dell’approccio biopsicosociale sia il coinvolgimento e l’attivazione attiva di tutte le risorse di un’equipe multidisciplinare e multi-professionale, al fine di massimizzare gli effetti di una buona comunicazione, promuovere e facilitare la gestione delle relazioni, delle emozioni e dello stress all’interno di un lavoro di Team che sappia coniugare una risposta organica adattandola alle esigenze multidimensionali. Per tali ragioni e alla luce anche di quanto evidenziato all’interno del Piano Nazionale della Cronicità, il Team dovrebbe comprendere figure cardine all’interno di una rete specialistica multidisciplinare, tra le quali grande risalto ricopre la figura  dello Psicologo nel suo ruolo “ponte” di duplice direzionalità: verso il paziente rispetto al sostegno e supporto psico-emozionale e psicoeducativo; verso il Team come facilitatore e mediatore nei processi di gestione della comunicazione e della relazione.